za Di ZA – ancora zaVATTINi

Claudio Crescentini

E’ ormai giunto il tempo di tentare di porre le basi di una “diversa” formulazione critica ell’arte, mediata dalla riscrittura di una Anti-Storia o Contro-Storia, ovvero Nuova Storia dell'Arte Contemporanea che guardi in primis ai singoli più che alla retorica delle tendenze, alla claustrofobia dei movimenti, alla schedatura delle denominazioni e degli ismi pre-confezionati, cercando così di ricercare, osservare e studiare anche le opere di quelle personalità fino ad ora considerate – se considerate – “fuori centro”. Sempre che prendiamo per buono il “centro” dato dalla critica contemporanea internazionale del ‘900, all’interno del quale poi sono rientrate, a volte artificiosamente e con fatica, tutte le categorie artistiche e gli artisti attivi nel nostro passato secolo, in funzione del futuro.
Molto spesso però abbiamo finito per trovarci di fronte a molteplici personalità dell’arte “fuori centro” – Morandi, Modigliani, Francis Cox, Alberto Savinio, Vinicio Berti, Lorenzo Viani, solo per

Figura di fanciulla con dedica
tempera, 1941
(proprietà di Emanuela Bompiani
già di Valentino Bompiani)
citarne alcuni – “decentrate” ed “eccentriche” rispetto al centro dato, ma non per questo meno evolute ed interessanti rispetto alla centralità, lo ripetiamo, della storia pre-confezionata, come nel caso appunto di Zavattini, ZA o “Za la mort” come aveva iniziato a firmarsi in gioventù.
L’opera pittorica di Zavattini infatti rappresenta, nel e per il progetto della nostra ipotizzabile Contro Storia, una sfida di reale stimolo; infatti al di là delle valenze meccanicistiche del “già dato”, sarebbe ormai giunto il momento di analizzarne l'opera ponendola anch’essa al di fuori dei grandi ma anche fallaci percorsi della critica e del mercato dell'arte, ritornando così alla lettura dell'arte legata all'individuo, al singolo come già affermato, riannodando le fila di una “nuova” storia del contemporaneo da riscrivere partendo forse proprio da ZA.
Del resto l’arte pittorica di Zavattini è già di per sé difficilmente “catalogabile”, come ben dimostrano, fin dal primo periodo e poi nel corso di tutto il proprio iter produttivo, i pur innumerevoli approcci della critica, la quale si è sempre sforzata di trovare congiunzioni, consanguineità e continui riferimenti – da Van Gogh e Matisse a Chagall – oppure di parlare del fattore “spontaneità” della sua pittura, considerandolo così più per le “intenzioni” del fare invece che per i reali risultati.
Il riferimento corre in particolare ai primi scritti importanti sull’opera di ZA, come quello realizzato in occasione della personale tenutasi presso la galleria “Zodiaco” di Roma, nel 1952, nel quale Libero De Libero scriveva appunto che Zavattini dipingeva più che altro “per amore della pittura, sorretto da “una ragione intima e devota, clandestina e contumace”. Ancora negli anni ’60 la pittura zavattiniana è ritenuta “frutto di incantevole ingenuità”, come scriveva all’epoca Marco Valsecchi.
Più recentemente comunque già Nicola Miceli andava sottolineando la stessa nostra esigenza analitica, basandola però sul versante puramente letterario e affermando che “avevano in sospetto i letterati italiani di lungo e verificato corso, la sua anomalia di nomade della scrittura, il suo gusto per lo sconfinamento dai recinti dei generi e dei ruoli, la sua abilità di cambiare fulmineamente i propri connotati.” Ed ancora, “(Zavattini) di per sé un bel rompicapo per i diligenti studiosi cui tocca l’ingrato compito di ridurre alla linearità, per quanto articolata, delle trattazioni settoriali di vicende e materiali la cui logica è quella sfuggente della complessità. Difficile mettere a fuoco un centro e delineare una periferia nell’universo Zavattini, un sistema che appare atomizzato in mille accensioni pirotecniche” o, come in precedenza aveva già scritto Franco Solmi, dell’opera di Za di “fondamentale non c’è nulla perché non c’è nulla di marginale”.
In definitiva però anche Za non è rimasto immune da classificazioni e confronti più o meno legittimi, così come risulta anche da una storia di questi stessi ripercorsa da Roberto Pasini nel catalogo dell’antologica del 1997, curata da Renato Barilli.
Partendo da quello più ovvio e banale della

Senza Titolo
tempera, anni '40
(proprietà di Attilio Bertolucci)
pittura naif soprattutto per quello che riguarda gli anni Quaranta, dove invece il gioco magmatico del pigmento sul supporto sembra già delineare l’evoluzione segnica futura, passando per l’infantilismo di stampo post-surrealista, post-Mirò per intenderci ma senza la base dell’automatismo psichico, Van Gogh (del ’72 il documentario realizzato con Luciano Emmer) con imbarazzante slittamento critico sul binario dell’”arte e pazzia” che ci porta ad un altro artista “fuori centro” riscoperto, almeno per il grande pubblico proprio grazie a Zavattini: Ligabue (dalla biografia in versi liberi dal titolo TONI pubblicata nel volume dedicato all’artista – 1967 – da cui trarrà in seguito – 1977 - il soggetto per lo sceneggiato televisivo con la regia di Nocita).
L’espressionismo nordico e perciò la Scuola Romana, di cui era specifico adoratore dell’opera di Mafai, passando per Corrente e Maccari, fino al congiungimento, intorno agli anni Settanta, con l’art brut di Dubuffet, con evocazioni degli Otages di Fautrier, fino alle deformazioni cromatiche del Gruppo Cobra.
E’ proprio da qui che vogliamo partire, da questo collegamento ambiguo seppur probabile fra l’art brut e ZA considerando però Dubuffet e la sua teorizzazione della libera espressione della singolarità del sentire, come una vera e propria chiusura del cerchio già aperto dallo “psichismo” surrealista teorizzato negli anni Venti da André Breton. Come sostiene al proposito Gombrich in Ideals and idols (1979) l’antimito proposto da Dubuffet (sul quale in parte già anni fa abbiamo ricalcato proprio la nostra embrionale teoria del “fuori centro”) va denunciato nell’interesse della verità. Nel caso di Gombrich la verità consiste nell’ammissione che queste produzioni estetiche, per capirci quelle dei pazzi e/o limitrofe teorizzate da Dubuffet, non sono l’espressione poetica di nessuna tendenza, né di alcun contesto culturale particolare e non hanno pertanto nessuna necessità di una specifica critica d’arte che le sostenga, né tanto meno di modelli.
L’oggetto della disputa fra Dubuffet e Gombrich è, lo ricordiamo ancora, l’arte realizzata dai pazzi, ma nel nostro caso ci sembra interessante la trattazione dell’argomento traslandolo appunto nel mondo pittorico di ZA, lontano da ogni forma di anti-mito così come di modelli dati, sia pittorici che critici. Per dirla con Adolph Holzel, il quale all’inizio del secolo affrancava l’impulso ornamentale da ogni servitù naturalistica, l’artista – nel presente caso Za – delinena un “libero dominio in cui l’arte fosse movimento espressivo, riproduzione di moti spirituali nell’equivalenza delle libere forme colorate”.
Continuando ancora con un altro storico e teorico dell’arte dell’inizio ‘900, Alois Riegl, riprendiamo la sua teoria in riguardo al considerare l’opera figurativa come il risultato di una determinata “volontà d’arte”, KUNSTWOLLEN.
Come perciò non voler rintracciare in una critica fuori

Sei suorine
olio, anni '50/'60
(proprietà di Eugenio Bernard già di Carlo Bernari)
centro l’arte decentrata di Zavattini, la sua Kunstwollen che lo ha portato a scrivere in un’autopresentazione del 1946, “la rivoluzione sarà possibile soltanto mediante la vista. Bisogna coprire i muri, i vespasiani, le scuole con le tricromie dei contemporanei, dei vivi”. In una volontà precisa che lo ha spinto del resto, fin da subito, ad alzare barriere fra lui e gli altri.
Sentiamo al proposito cosa afferma Zavattini, soprattutto per ciò che concerne l’abbinamento stilistico già riferito con l’arte di Dubuffet e le sue opere della fine anni Trenta ed inizio Quaranta. “Sarebbe presuntuoso e perfino stupido insinuare che Dubuffet o Fautrier mi devono qualche cosa; ma è altrettanto superficiale e disinformato darmi per antenati questi due egregi artisti quando nei limiti di pittore saltuario la mia origine si trova appunto nelle facce che erano già autoritratti, di quel disperato periodo di guerra” (lettera scritta a Raffaele Carrieri nel 1970) – per inciso ricordiamo che già nel ’30 Za pubblica nel quotidiano romano “Il Tevere”, suoi disegni, insieme a quelli di un altro letterato pittore da riscoprire, Guareschi, a corredo di brevi racconti umoristici. Nel 1931 un suo “scarabocchietto” come cita Za viene pubblicato nel suo primo libretto Parliamo tanto di me.
Interessanti le parole di Zavattini soprattutto se consideriamo un’attività di quasi cinquantanni da “pittore saltuario” e nello stesso tempo la totale avulsità, a nostro avviso, fra la sua pittura e la sua scrittura letteraria e/o per il cinema.
In questo senso la pittura di ZA è totalmente autonoma nei confronti dell’ altro Za, quello dedito alla scrittura per capirci. E’ infatti rivendicabile una autonomia espressiva anche nei confronti di altri artisti dello spettacolo, pensiamo ad esempio a Fellini, il quale disegna solo in funzione della ricerca di “caratteristicità” riscontrabili nei personaggi dei suoi films; Antonioni che sembra scrutare al microscopio, mediante l’uso di una tecnica pittorica in qualche modo sperimentale, la medesima azione analitica della propria sperimentazione filmica, quasi senza porre alcuna autonomia esecutiva fra l’uno e l’altro media; Dario Fo che usa prettamente il disegno a scopo illustrativo, come nel caso del fumetto cartaceo o del cartoon; così come per il giovane Matteo Garrone che lavora sulla pittura imprimendo una ben sicura cifra stilistica di una nuova figuratività in parte poi ripresa negli zoom ravvicinate delle riprese filmiche, da Estate Romana a L’Imbalsamatore.
Mentre sul versante letterario vorrei ricordare il più coerente Pasolini e il suo segno vero, realista che sfocia poi nella scrittura di Ragazzi di vita e Una vita violenta, a loro volta molto affini alle sue prime regie, Accattone e Mamma Roma.
Mentre, sempre restando nel campo letterario, un'altra personalità artistica “fuori centro” è Friedrich Dürrenmatt – Locarno Pinacoteca Casa Rusca mag.-ago. 2003 – il quale ha fatto della sua pittura “non saltuaria”, acida ed espressiva, una bandiera idiosincratica nei confronti dalla sua scrittura stessa.
La pittura di Za, un po’ come quella di Dürrenmatt ma meno caustica, ci sembra invece che nasca proprio andando al di là del centro e giocando, un verbo che a Zavattini sarebbe piaciuto molto, per continui rimandi e conseguenti slittamenti di senso e figura, come nel caso delle decine di ritratti e autoritratti.
Nella rappresentazione del sé stesso infatti Zavattini diversifica velocemente il proprio percorso, ma senza intrecci mediali fra pittura, scrittura ed immagine filmica, ma anzi rivendicando, a volte in maniera presuntuosa, la sua appartenenza al mondo pittorico del “passa tempo” o, come avremmo potuto affermare oggi, pittore della domenica.
E’ lo stesso Zavattini infatti a presentarsi, in una mostra del 1975 ad Asiago, con una delazione precisa: “Ho messo in giro la voce che sono un pittore che non sa dipingere. Ma è certo che sono un pittore”.
Anche analizzando gli scritti di Zavattini la pittura, per l’artista, sembra essere diventata nel tempo, sempre più un’isola felice, seppur faticosa, alla quale ritornare, un’àncora di salvezza nel caos suo e del mondo (non solo suo). Lo ripete spesso anche in molti scritti autobiografici raccolti poi da Paolo Nuzzi in IO. La pittura diventa così il contraltare serio del cinema, mezzo che lo rapisce troppo spesso dalla sua isola, e che a volte viene accettato da Zavattini per puro bisogno economico. Del resto è lo stesso Za a ricordarlo, nel luglio del 1950, in una lettera a Massimo Campigli: “ho ripreso a dipingere ma con troppa saltuarietà. Quando sto per rimettermi in carreggiata e non vedo che colori, notte e giorno, ecco che il cinema mi ritoglie dalla bella vacanza e addio. In certi momenti mi pare proprio di essere un pittore, nei miei limitissimi. Ma allora perché non butto tutto in aria fuorchè la tavolozza?”.
A nostro avviso, la pittura di Zavattini non è naïf – ridando a questo termini il suo pieno senso stilistico – né saltuaria, viste le centinaia e centinaia di opere realizzate negli anni; è una pittura immune da tecnicismi accademici più che senza tecnica, grande rammarico di Za, com’era del resto tipico dell’arte post-avanguardista del secondo Novecento, nel momento in cui i preziosismi tecnici precedenti – Metafisica, Valori Plastici, Novecento, Realismo Magico, ecc. – andavano sostituiti dal concetto, dall’idea stessa del fare arte, dal suo fattore di pensiero più che di azione, seppur l’azione era sempre presente come nel caso dell’arte segnica e gestuale.
E’ proprio questa la prospettiva più giusta di lettura della pittura di Za che risiede proprio nel suo essere oltre il presente storicistico, per annunciare, già fra gli anni Trenta e Quaranta il gesto e il segno, anche se ancora di diretta discendenza espressionista, segno e gesto di un pensiero.
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