il 77 in 7 mosse
                                                                      Stefano Cappellini

Il 1977 è l’anno in cui

1_finisce la prima Repubblica. Sono già chiari e irreversibili tutti i fenomeni che porteranno al collasso il sistema politico nazionale: corruzione, alternanza bloccata, istituzioni screditate, crisi strutturale dell’economia. Dopo le elezioni del giugno ’76 il Paese è governato da un grottesco monocolore democristiano, detto “delle astensioni”, perché gli altri cinque partiti dell’arco costituzionale (PCI / PSI / PLI / PRI / PSDI) sostengono l’esecutivo guidato da Giulio Andreotti astenendosi in Parlamento. La democrazia italiana bloccata raggiunge qui il picco della sua involuzione: l’unica alternativa possibile, l’ingresso del PCI nel governo (non in alternanza con la DC, ma insieme alle altre “forze popolari”, secondo la teoria del compromesso storico), è finita; porterebbe a un Paese senza opposizione in parlamento, paradossalmente proprio nel momento in cui nella società emergono forze prepotenti e insoddisfatte che non si identificano più con nessuno dei partiti storici. Nel marzo del 1978 le Brigate Rosse si incaricheranno di stroncare ufficialmente i propositi di governo del PCI.

2_si estingue il comunismo italiano. Nonostante nel movimento siano ancora forti le spinte tardo-leniniste, che finiranno in buona parte ad alimentare i mille fuochi (fatui) del partito armato, nelle parole d’ordine di una parte importante dei giovani contestatori, in piazza e nelle università, c’è, se non proprio l’anticomunismo denunciato dal PCI, certo una visione della politica e della società che col comunismo non ha più niente a che fare. Tutte le istanze più originali del movimento (elogio della flessibilità, centralità dell’individuo, comunicazione-spettacolo) portano gli stessi suoi protagonisti verso un’inevitabile conclusione: il comunismo (reale o utopico che sia) è un sistema regressivo, il capitalismo è un sistema dinamico che meglio realizza le aspirazioni dell’individuo come quelle del gruppo, a cominciare dalla possibilità di liberare fasce sempre più ampie di popolazione dal vincolo del lavoro manuale e ripetitivo per avviarle verso professioni creative e ad alto valore aggiuntivo.

3_il terrorismo politico comincia ad alzare il tiro, passando dalle gambizzazioni agli omicidi.

4_una generazione guarda al proprio futuro lavorativo e sente di non avanzare più su un binario prefissato. La prima reazione è di paura, incertezza, quel senso di no future che è l’umore comune del nascente movimento punk. Ma insieme al sentimento negativo si diffonde un senso di liberazione, di potenzialità che si traduce, nelle teorie più avanzate del movimento, in un elogio della flessibilità: s’avanza la convinzione che l’indisponibilità di un posto fisso a vita è una opportunità per reinventarsi più vite, per liberare tempo (specie quello per i consumi culturali), per creare più sviluppo e più ricchezza per tutti.

5_la donna si libera dal femminismo e il sesso dalle gabbie del politicamente corretto. A un certo punto, la presunta liberazione sessuale figlia del ’68 s’è ritrovata prigioniera di griglie ideologiche insostenibili, che teorizzano quale orgasmo è progressista e quale no, quali pratiche sono lecite e quali no, quali rapporti sono liberi e quali vietati. Il sesso è permesso, ma se prima non hai consultato il kamasutra femminista rischi di fare un passo sbagliato e ritrovarti scaraventato giù dal letto con l’etichetta di sciovinista o stupratore.

6_la comunicazione libera prende sempre più piede. Chi oggi enfatizza la rivoluzione dei blog, dovrebbe ricordare cosa ha rappresentato l’avvento delle radio libere, trainate dalle emittenti “politiche” (Radio Alice a Bologna, Radio Città Futura e Radi Onda Rossa a Roma, Radio Popolare a Milano), in fatto di cambiamento del linguaggio, evoluzione del costume, creazione di posti di lavoro, apertura dei mercati.

7_finisce l’Italia in bianco e nero, il primo anno in cui non va in onda Carosello, quello in cui esplodono le tv libere. A implodere, invece, è la teoria dell’austerità del PCI, proposta nemmeno come strumento di uscita dalla crisi economica, ma addirittura come fine ultimo della “diversità” comunista. Si avvia all’estinzione quel pauperismo moralista, quel pasonilismo reazionario per cui “povero è bello” e fa anche cultura popolare.

© Sperling & Kupfer editori

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